Mi chiamo Marco Fagioli

Mi chiamo Marco Fagioli.
Scrivere è già di per sé un’operazione estremamente difficile per la difficoltà di rendere su carta i sentimenti, ma in questo caso principalmente per due motivi: il primo è che non vedo perché qualcuno debba interessarsi a ciò che scrivo; il secondo motivo è che scrivere non è il mio mestiere… perché il mio mestiere è
…danzare.
Mi ammalai di danza da bambino, quando avevo circa cinque anni, per colpa di mia madre, che volendomi trovare un’attività pomeridiana, pensò a quella che era stata la sua passione. Onestà vuole che io confessi che tra me e Tersicore non fu esattamente un colpo di fulmine. La mia prima lezione di danza si concluse in una decina di minuti, il tempo di appendermi mani e piedi alla sbarra e percorrere così parte del perimetro della sala, prima di essere placcato dalla povera maestra e riconsegnato alla sbigottita genitrice. Ciò nonostante parve a tutti una buona idea che io mi ripresentassi alla lezione successiva. I primi anni trascorsero così ,come per tanti altri bambini che fanno danza: un impegno bisettimanale, la difficoltà di darsi una disciplina, qualche sfottò a scuola. Ma nel frattempo già andava accendendosi quel fuoco che accomuna tutti i danzatori: era ormai impensabile ritirarsi.
Alcuni giorni odiavo tutto: i vestiti ridicoli, la musica noiosa di solo pianoforte, che per di più dovevo imparare a dividere e contare in otto battute; odiavo le bambine che davano libero sfogo alla loro vanità infantile, pettinandosi con cura e conciandosi come dei carillons. Eppure non mi ritirai mai.Non lo feci perché quello che imparavo ad amare era molto più elettrizzante di tutto il resto. Imparavo a controllare il mio corpo e il mio carattere, imparavo a saltare e a cercare di restare fermo in aria, mi faceva sentire un super eroe (avevo anche la calzamaglia) e ,soprattutto, imparavo ad andare in scena. Imparavo quella sensazione di panico lucido che ti prende prima di uno spettacolo, i momenti in cui il sangue ti scorre nelle vene con una tale velocità da farti formicolare le dita, la tua mente che accelera i pensieri e la sensazione di non riuscire a concentrarti su niente, due mani fredde che ti stringono lo stomaco: una lo stringe da fuori e l’altra lo allarga da dentro. Senti di avere la febbre ,ti senti bruciare da dentro, il costume é scomodo e sembra che ti imprigioni; le bambine intorno a te parlano e sembra che non gli importi niente, un tuo amico parla di calcio,l’altro mangia ,tu hai la sensazione di esplodere per la tensione, ma non puoi. Quando finalmente vai in scena,magicamente tutto si calma e torna a posto, il cervello funziona e ricorda i passi, le gambe li eseguono.
Negli anni impari anche a sorridere, ricordare le correzioni e cercare la credibilità in quello che interpretavo. In scena, allora come oggi, guardavo il pubblico e restavo con il fiato sospeso aspettando l’applauso, che immancabilmente mi metteva in pace con me stesso e con gli altri, mi svuotava di ogni tensione e mi riempiva di un’energia nuova . E da allora, è sempre stato così. Mi lasciai allora prendere da questo turbinio e decisi che era quello che volevo continuare a sentire nella vita quante più volte possibile. Quello che volevo lo costruii allora con sacrifici e rinunce…e lo ottenni. Riuscii a diplomarmi in una Accademia prestigiosa, dove mi insegnarono ad essere un professionista, a lavorare con intelligenza e umiltà,ad essere affidabile e serio nel lavoro. Scoprii in seguito che erano queste le qualità principali che deve avere un ballerino. Imparai anche a conoscere il Teatro nel suo insieme che non è fatto solo di danza. Esistevano l’ Opera lirica, i concerti Sinfonici e anche l’immenso lavoro di retropalco, gli scenografi e i costumisti. Imparai la complessità e il fascino del Teatro nel suo insieme e quanto fosse importante la perfetta sincronia di tutti questi ingranaggi.
Un anno dopo la fine della scuola vinsi il concorso di stabilità all’ Arena di Verona che mi offrì un contratto a tempo indeterminato.
Avevo 20 anni.
Gli anni che seguirono furono quanto mai altalenanti, ma come potrebbe non essere così? Ho vissuto grandi emozioni e profonde delusioni, ho incontrato grandissimi artisti e cialtroni (nel teatro c’è spazio anche per loro), ho cercato qualche volta la fuga in esperienze più appaganti artisticamente,ma alla fine l’Arena di Verona rappresentò che per me l’unico “ canto delle Sirene”: il più grande palcoscenico del mondo, il teatro all’aperto più grande del mondo. Il più grande applauso del mondo. Non c’è niente da fare, si può essere sicuri e strafottenti quanto si vuole, ma per tutti la prima Arena provoca la stessa reazione: il colpo d’occhio stordisce pubblico e artisti, l’ Arena è essa stessa uno spettacolo: da artista non puoi chiedere di più. La Marcia trionfale dell’Aida non è la stessa in nessun altro teatro. Ho ormai il ricordo di più di una generazione di giovani danzatori sicuri e sprezzanti in retropalco, perché in fondo l’ Aida non è un balletto, iniziare a tremare come foglie una volta in scena. Quando alla fine l’applauso arriva, non ti appaga come al solito, ti travolge come una valanga.
Purtroppo però ho imparato anche altre cose, quanto quell’ amore per la danza ed il suo valore artistico non sia riconosciuto. Così ho visto negli anni Corpi di Ballo italiani chiusi uno dopo l’altro, “sacrificati all’altare del bilancio” perché il teatro è un’azienda e deve produrre ricchezza materiale. Quella spirituale non è monetizzabile, quindi non ha valore. Le difficoltà economiche raggiunsero anche Verona e dal 2009 niente fu come prima. I nuovi allestimenti diminuirono, si contrassero le repliche degli spettacoli della stagione invernale, calò di anno in anno la qualità degli spettacoli. I grandi artisti divennero rari e l’afflusso di pubblico iniziò a calare. Il punto più basso, personalmente l’ho percepito nel 2013, l’ anno del centenario: la sera della prima, la Marcia trionfale dell’Aida nell’allestimento curato da La Fura del Baus, fu accompagnata dai fischi per tutta la durata della scena. Alla fine, al posto della valanga di applausi ci fu qualche secondo di imbarazzante silenzio seguito da un timido battimani di circostanza.
L’epilogo é scontato: due anni dopo la Direzione del Teatro gettò la maschera e ammise la gravità della situazione economica, fino ad allora pervicacemente negata. Dopo una trattativa durissima che niente aveva a che fare con l’arte e il teatro, dopo proteste e manifestazioni simili alle lotte operaie degli anni ’70, il “sacrificio all’altare del bilancio” si è compiuto:
il Corpo di Ballo dell’Arena di Verona è stato dismesso,
la programmazione di Balletto è stata cancellata dal cartellone del teatro e
noi danzatori siamo stati licenziati nel Gennaio del 2017.
La nostra passione ,il nostro amore per quel Teatro, i sacrifici di una vita non hanno avuto nessun valore davanti ai freddi numeri, la nostra professionalità è stata ignorata e messa in dubbio sui giornali, da chi non ha mai neanche visto una sala di danza, non ha mai toccato una sbarra, e che pure ha avuto l’arroganza di decidere che, in Italia e solo in Italia, i Corpi di Ballo sono la parte sacrificabile di un teatro.